Letta a Bari per l'inaugurazione della Fiera: "Rispondo con i fatti, non con annunci"

BARI. "Questi sono fatti non annunci, sono fatti: lo dico a tutti quelli che raccontano altre storie". Lo ha detto il premier Enrico Letta all'inaugurazione della Fiera del Levante, elencando i risultati raggiunti dal governo.
"L'Italia è in bilico - ha aggiunto - e ho preferito fare un ragionamento con spigoli e asprezze", ma penso che "per farcela si debba partire dal Sud", perché "pensare che l'Italia si salva a scapito del Sud è una strategia che combatto con tutte le mie forze".

IL DISCORSO DI VENDOLA. Il discorso del governatore regionale pugliese all'arrivo del premier Letta per l'inaugurazione della 77ma edizione della Fiera del Levante.

Sig. Presidente del Consiglio, caro Enrico,
la mia generazione è stata educata a tessere una relazione costante tra “ottimismo della volontà” e “pessimismo dell’intelligenza”, affinché l’analisi lucida e spietata degli snodi della realtà non si tramuti mai in paralisi dell’azione e in ripiegamento nel proprio “particulare”. Questa è la ragione per la quale, sia pure da oppositore del tuo governo, io apprezzo sinceramente il tuo sforzo di investire su quel capitale di fiducia che occorre preservare e consolidare per dare una prospettiva all’Italia. E poiché credo di capire la gravosità e l’intensità morale del tuo impegno e del tuo compito, vorrei dirti non solo che ascolterò con grande rispetto e attenzione le tue parole ma che, nel rappresentare la Puglia, sarò sempre fedele al dovere di leale collaborazione con il tuo governo.
Certo, l’Italia ma anche l’Europa sono in grande affanno. Si fa fatica a scorgere il punto di luce che segna la fine del tunnel, la fuoriuscita dalla crisi, un nuovo inizio per l’economia e una nuova speranza per le giovani generazioni. La recessione non è alle nostre spalle, ma è tutta ancora sulle nostre spalle. La produzione industriale continua a essere strozzata, e si combatte territorio per territorio, a difesa di ciò che resta, ma senza che nell’ultimo ventennio si sia messa in campo una visione organica di ciò che l’Italia vuol fare, di ciò che vuole essere nel mondo. Il non-lavoro è il piano inclinato su cui scivolano nel vuoto le competenze, i talenti, i bisogni di futuro, mentre nel nostro asfittico mercato del lavoro i contratti di precarietà superano percentualmente i contratti a tempo indeterminato. Nel contesto di un sistematico attacco al Welfare, precarietà e povertà si impastano come l’acqua con la farina, generando un sentimento di inquietudine collettiva, segnando nevroticamente la psicologia del corpo sociale, scavando trincee di disagio nelle città e facendo rimbalzare anche con violenza le schegge di mille identità che si schiantano sul muro della paura e dell’angoscia. E se si crede di rispondere all’esplosione anche rabbiosa di quel dolore sociale, che è smarrimento e persino follia individuale, con esercizi di contenimento e di controllo militare, davvero ci si illude. La povertà è il grembo in cui si generano multiformi e devastanti insicurezze, l’esproprio di reddito e di protezione è l’estuario in cui sfociano frustrazioni, rancori, solitudini. La povertà mina la coesione e la tenuta democratica, soprattutto quando trancia di netto il paradigma novecentesco del progresso e dell’emancipazione, quando manda in blocco gli ascensori sociali, quando è impoverimento di massa, quando trascina nel gorgo i corpi intermedi della società, quando appunto diviene rinsecchimento delle basi produttive della nazione, quando registra lo smottamento di pezzi crescenti di quella piccola borghesia d’impresa che muore perché non ha ossigeno, perché non ha accesso al credito, perché non incassa il dovuto dalle pubbliche amministrazioni. E in questi giorni non trovi imprenditore che non racconti di come si stia ora ulteriormente restringendo l’offerta del sistema bancario.  La scuola e l’università sono al collasso e chiedono non cure palliative ma interventi radicali di riqualificazione e di rilancio: giudico positivo il primo avvio di una inversione di tendenza, dopo anni di tagli ragionieristici quanto sconsiderati agli apparati della formazione. Ma occorre un investimento di lungo periodo e di dimensioni rilevanti sull’educazione perché lo sviluppo anche economico della nostra società ha bisogno di nutrirsi di cultura, di culture, di socializzazione delle competenze scientifiche, anche per combattere quella radice di ogni fondamentalismo che consiste nell’idea che la complessità sia una invenzione del maligno e che basta un gesto di magia, o un esorcismo, o un urlo demagogico, per cambiare il mondo. La condizione fisica della nostra penisola, con il suo dissesto idro-geologico e le sue mille fragilità ambientali, dovrebbe essere il baricentro del dibattito politico e programmatico. Le sfide della modernità dovrebbero attrarre, sia pure nel vivo della dialettica politica e sociale, tutte le nostre energie. Ma ho l’impressione che l’agenda della vita pubblica sia ancora piuttosto distante dall’agenda della realtà. La verità è che la crisi non è solo questione di spread. Qui siamo ad un passaggio che è insieme finanziario, economico, sociale, politico, culturale e persino antropologico. E’ come una tempesta perfetta, in cui i mercati finanziari hanno precipitato l’intero mappamondo. E’ la fotografia caotica di un mondo dominato da poteri irresponsabili, svuotato di protagonismo democratico, bisognoso di fare i conti con una idea di ricchezza che si astrae dal lavoro e si trasforma in gioco d’azzardo, che piega ogni diritto (quello alla vita, alla salute, alla qualità ambientale) al primato del profitto. Voglio dirlo con franchezza: c’è o no una questione che attiene allo stile con cui il capitalismo italiano, pur fra tante luci, ha esercitato le proprie prerogative? Forse non è più attuale la lezione di Adriano Olivetti, della sua fabbrica-comunità, della sua etica del lavoro e della sua idea di polis. Ma le vicende giudiziarie che stanno coinvolgendo i più importanti gruppi imprenditoriali, le più importanti famiglie che operano in tutti i settori fondamentali della nostra economia e della nostra finanza, chiedono a tutti un supplemento di riflessione sull’urgenza di rifondare una relazione cogente tra etica ed economia e sulla necessità di restituire allo Stato un ruolo di orientamento delle politiche industriali, affinché la sfera pubblica non sia un sorta di bancomat per il privato ma il luogo in cui si definiscono l’orizzonte strategico, gli obiettivi ma anche i vincoli dello sviluppo: e cioè le regole che consentono di non truccare il gioco della concorrenza e di non drogare il mercato. In quelle regole c’è anche molto altro, non una retorica ma beni sociali e diritti di rango costituzionale. Stiamo alla vicenda più spinosa e sia consentito a me di dire senza ipocrisie ciò che penso. La democrazia è il tema che va affrontato, quando il ciclope della siderurgia sottrae illecitamente ricchezza, occulta nella segretezza il comando di fabbrica, rinvia i conti con la vita e con la morte di una comunità ostaggio dei veleni e delle menzogne: se nel corso del tempo si accettano i reparti-confino per gli operai riottosi ad una certa disciplina, poi diventa quasi normale ribellarsi alle centraline che raccontano le performances delle emissioni dal camino E 312. Ilva è un vero crocevia in cui precipita per intero una lunga storia italiana di omertà e subalternità culturale, Ilva non parla un dialetto ionico ma la stessa lingua nazionale di Bagnoli o di Porto Margera o di Priolo. Sembra banale dirlo ma non lo è: la diossina non è un destino, come non lo è l’amianto. Voglio dirlo con deliberata ingenuità. E’ la scelta di subordinare la ricchezza della vita alla vita della ricchezza. Inquinamento non è sinonimo di crescita, direi il contrario: è sinonimo di perdita, di spoliazione, di morte. La si smetta con le repliche di finto buon senso o con i ricatti occupazionali. E se Ilva fa la serrata proprietaria, il Governo risponda ampliando il sacrosanto processo di commissariamento e di estromissione di chi si è appalesato in tutta la propria inaffidabilità. Lo diciamo con la determinazione di chi ha sempre considerato una sconfitta e un tragico errore l’idea di chiudere i battenti della grande fabbrica e si è battuto perché la sfida vera fosse quella dell’investimento per l’ambientalizzazione. Nel mondo di Fukushima non sono più consentite furbizie di alcun genere e la crisi non può essere l’alibi per rinviare le scelte necessarie. Il risanamento, le bonifiche, la eco-sostenibilità non sono nostalgia di un mondo pre-moderno o l’inseguimento di mitologie bucoliche. Il principio di precauzione e la cultura del limite devono normare e disciplinare i nostri edifici sociali. Qui c’è il salto nel futuro, altrimenti sarà il salto nel buio. La coscienza collettiva ha preso le distanze dalle superstizioni sviluppiste e ci chiede a tutto campo un’opera – uso un termine religioso – di conversione “ecologica” dell’economia. Questo è tanto più vero al Sud, dove la bellezza non è una cartolina ma il dovere di preservare il territorio e il paesaggio, di fermare la speculazione e la cementificazione selvaggia, di ripensare l’edilizia come economia della qualità urbana, della riqualificazione delle periferie, in una cornice di salvaguardia dei valori d’uso della terra, delle coste, dei corsi d’acqua, dei boschi, delle montagne. La prospettiva del recupero e del riuso piuttosto che la rincorsa affaristica al consumo di suolo aiutano il ciclo delle costruzioni a far crescere il proprio valore aggiunto in termini di qualità, di architettura ambientale, di bioedilizia: anche questo è essere in senso pieno cittadini europei. Privato e pubblico possono costruire strategie inedite di produzione di ricchezza per tutti: la ricchezza sono risorse di reddito e di patrimonio, ma anche qualità dell’aria e dell’acqua e del cibo e della natura e dell’organizzazione dell’esistenza collettiva. Vedete: stiamo in questi mesi monitorando il viaggio verso il nord adriatico delle nostre tartarughe marine. Gli addetti commerciali di 30 ambasciate che ho incontrato a Roma mi hannop parlato dei fenicotteri o le cicogne che sostano nei nostri siti naturalistici. Questo non è poesia – e chissà perché la poesia è considerata una cosa bizzarra - ma è ricchezza economica, perché è consapevolezza di ciò che siamo, di ciò che abbiamo, di ciò che non ha prezzo ma che ha immenso valore. Lo facciamo mentre ci candidiamo ad essere, come Puglia, il trampolino di lancio dei futuri vettori del trasporto aereo, anche perché qui abbiamo brevettato la fibra di carbonio come materiale di costruzione, mentre  diamo a quel Politecnico di Bari che si classifica tra le migliori università italiane la chance di essere una fucina di idee e di lavoro, mentre insistiamo nella volontà di radicare quelle politiche giovanili (le abbiamo chiamate “bollenti spiriti”) che ci invidiano in tutta Italia, mentre cerchiamo di essere un Sud capovolto: non la terra delle incompiute, ma la terra delle opere realizzate. Un aeroporto che raddoppia, come Bari Palese, le proprie strutture e nella cui pancia entra la ferrovia, e che si ripensa nel segno della autosufficienza idrica ed energetica, ma dotandosi anche di un asilo nido. La ferrovia a Lucera o a Bitritto, gli ammodernamenti ferroviari nel Salento o in Capitanata, le storie belle di periferie come il San Paolo di Bari che guadagnano la metropolitana. Penso al catalogo di servizi sociali con cui abbiamo dato valore a quell’acronimo talora un po’ livido che è Por: gli asili nido, gli ospice per i malati terminali.  Lo dico non solo per rivendicare una fatica spesso disumana, certo non esente da errori e criticità, ma anche per dire che devono smetterla di diffamare il Sud, proponendo per noi punizioni e classi differenziali. Un leghismo a buon mercato, anche di ambienti intellettuali, si è sempre esercitato a mandarci all’inferno. Che si fa contro il Mezzogiorno della dissipazione di risorse pubbliche? Facile: magari si può sopprimere l’ateneo di Bari! Che immane insopportabile sciocchezza. Noi piuttosto chiediamo di moltiplicare i centri di innovazione o le borse di dottorato. Le università servono a curare anche l’anima di un territorio, ma servono soprattutto a fabbricare futuro. Piuttosto servirebbe sopprimere il numero chiuso per evitare l’indecenza di una selezione che non conosce neppure l’indirizzo di una parola abusata come merito. Quando dicono della spesa europea, signor Presidente del Consiglio, d’ora in poi dovranno chiamare per nome e cognome quelli che ci fanno sbandare e che mettono in pericolo le politiche di coesione: la Puglia ha superato tutti i target di spesa e se ti dovessi chiedere una cosa specifica, come in genere non faccio, ti direi: fateci correre, fateci correre senza più il freno a mano tirato, liberateci dal cappio del patto di stabilità. Credo di sapere cosa potrai dirmi in proposito, e non è questa l’occasione né il luogo per dirti ciò che penso delle politiche di austerità: ma allora visto che una norma di legge ci consente lo sforamento controllato per il co-finanziamento della sfesa comunitaria, ci venga risparmiata l’umiliazione e il danno di quelle mini-sanzioni che sono un atto di sadismo istituzionale. Altrimenti Roma al mattino ci dice di spendere e la sera ci multa perché abbiamo speso! Su questo terreno nessuno di noi, non io e non la Puglia, ci sottrarremo al dovere di un coordinamento nazionale col governo per migliorare quantità e qualità delle cose che facciamo col salvadanaio di Bruxelles. Io sono contro l’anarchia di una periferia deresponsabilizzata ma anche contro un centralismo che riduce i territori a terminali muti di decisioni prese dall’alto. Ascoltateci, quando si chiede confronto non è per esibire la cultura del lamento. Se progettiamo e dunque esigiamo di ricucire quella dorsale adriatica che è fratturata, con la ferrovia ad un solo binario tra Termoli e Lesina, lo facciamo perché lì inciampa l’unità del Paese, lì cresce l’ansia dei pendolari e diminuisce il trasporto delle merci: e la Puglia che si ricollega verticalmente al Nord e acchiappa, col treno ad alta capacità, Napoli e la costa tirrenica, diventa concretamente una piattaforma logistica per l’Italia intera. Se una delle coste più belle del Mediterraneo si ribella al progetto di un grande gasdotto, che è certo un progetto di competenza del governo nazionale, non chiudete le orecchie. La democrazia non è girare a vuoto, ma cercare insieme le soluzioni migliori: lo dimostra una regione che ha voluto fare il salto nella green economy e che dell’energia rinnovabile è diventata leader e che non merita di essere raccontata come un covo di fondamentalisti. Se la porzione più bella delle nostre Murge aspira a non essere più ridotta al rango di un gigantesco poligono di tiro, non è per malcelato anti-militarismo: lì le popolazioni sentono una identità culturale mutilata e propongono di costruire un dialogo con l’esercito e col governo. Se chiediamo di poter investire nella banda ultra larga o nelle piste ciclabili, o di poter continuare a migliorare le strutture e infrastrutture scolastiche, o di poter con risorse europee continuare a implementare la rete dei servizi che si occupano delle fragilità e delle persone vulnerate, lo facciamo perché ci sentiamo per intero dentro la sfida, dentro il sogno, degli Stati Uniti d’Europa. Diremo i nostri si e i nostri no, non so se avremo sempre ragione ma avremo sempre passione. Si tratta, in ciascuno di questi nodi, di intessere la trama di una nuova relazione tra cittadini e Stato, di non sentirsi trattati da sudditi o da clienti, di essere tutti protagonisti della ricostruzione del Paese. Costruire futuro significa guardare con sguardo pulito le cose belle e buone che ci sono, non tacere mai delle cose  sbagliate e brutte e anche orribili, non rimuovere nel nostro Mezzogiorno, come nel Paese, la questione scabrosa di una mafia che, colpita mille volte nei suoi tentacoli e nella sua testa, sempre si mostra capace di risorgere nello spazio largo che separa e poi unisce la povertà in cui reclutare e la ricchezza in cui investire. Colpire la mafia significa costruire il mercato, la democrazia, la buona competizione che si mescola con la buona cooperazione. Significa educare alla legalità e ai diritti di cittadinanza. Per noi significa non mettere la testa sotto la sabbia dinanzi a fenomeni di modernità arcaica come il caporalato nelle campagne e non abbassare la guardia rispetto a ciò che ci manda a dire ogni giorno la cronaca criminale. Ma nelle campagne nostre cresce anche una moderna impresa agricola, accanto si sviluppano le masserie didattiche, le nostre cantine vincono le sfide dell’internazionalizzazione. E la Puglia, con la sua effervescenza e la sua versatilità, con la sua industria turistica, con i suoi attrattori culturali, con il cinema e la musica intesi come industria e attività produttive, diventa una calamita, un brand di qualità. La Fiera del Levante racconta questo, lo fa oggi provando a mettere in comunicazione passato e futuro, la cifra di una grande festa di popolo e le incombenze del confronto col sistema fieristico internazionale. Come l’araba fenice, rinasce dalle proprie stesse ceneri ed è sempre la vetrina delle nostre ambizioni. E nel recinto della cittadella, nell’antico quartiere, sorge un mondo nuovo di impresa innovativa, di coworking, di moderne dinamiche commerciali. La stagione calda si è congedata lasciandoci risultati davvero incoraggianti di presenze turistiche, soprattutto ci incoraggia il trend in crescita di turisti stranieri. Questo non ci consola dinanzi al dolore di una azienda che chiude, non ci ripara dalle troppe tempeste che spezzano economie e vite. Non tutto è nelle nostre mani. Ma , signor Presidente, caro Enrico, noi cercheremo di fare il possibile e l’impossibile per difendere questa terra, il nostro Sud, la civiltà del mare che ci accoglie, le promesse del continente che abbiamo appena cominciato a costruire.

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