DEBORAH PETRUZZO - L’8 dicembre del 1987, durante una
storica insurrezione che si è distinta nel
tempo come una delle più eclatanti
risposte della storia all’occupazione,
uomini e donne Palestinesi occuparono le
strade di Gaza e della Cisgiordania per far
sentire la loro voce contro il terrorismo
israeliano.
L’evento segnò lo scoppio di una serie di
dimostrazioni, rivolte e manifestazioni nei
territori occupati. Una delle ragioni per
cui l’Intifada resta il momento clou nella
lotta nazionale palestinese è perché ha
dato vita alle fazioni della resistenza, sia
quelle armate che quelle non.
Le rivolte popolari esplosero l’8
dicembre 1987 dopo che un israeliano
scagliò la propria auto su un gruppo di
lavoratori palestinesi, tutti provenienti
dalla cittadina di Jabaliya, a nord della
Striscia di Gaza, nei pressi del valico di
confine di Beit Hanoun (Erez), provocando
quattro morti e numerosi altri feriti.
Subito dopo la sortita, le truppe
israeliane iniziarono a farsi notare in zona.
Irruppero, infatti, contro i Palestinesi in
marcia durante la processione funebre dei
quattro deceduti.
Durante la marcia gli elicotteri israeliani
fecero piovere una carrellata di proiettili e
di gas lacrimogeni nel tentativo di
disperdere le migliaia di persone che
avevano preso parte al funerale.
Molti furono i morti e decine i feriti,
scatenando ancor di più la rabbia dei
Palestinesi.
Secondo gli osservatori, questi atti
violenti contro i singoli – e quelli
precedenti – furono soltanto gli ultimi
strascichi della ventennale occupazione
militare e dei suoi atroci effetti su un
popolo oramai privato delle proprie case,
delle terre e della stessa sovranità.
Più che una reazione di riflesso
all’occupazione, si trattò di una compatta
insurrezione all’inarrestabile lotta politica
per l’autodeterminazione che, tra i ranghi
più bassi della popolazione, dilagava già
da molto tempo prima del 1987.
Questi eventi furono, non a caso, la
goccia che fece traboccare il vaso dopo
venti lunghi anni di brutale occupazione
israeliana. Le immagini di adolescenti
palestinesi che, usando solo armi a
portata di mano – sassi, copertoni da
bruciare e anche ‘prese in giro’ -, si
scontravano in strada con uno degli
eserciti più sofisticati esistenti fecero
presto il giro di tutto il mondo.
Fu questo che da molti viene
considerato l’inizio dell’Intifada. Molti
ricordano non solo le immagini degli
adolescenti che lanciano pietre, ma anche
le immagini di quegli stessi ragazzi a cui i
soldati spezzano sistematicamente le
braccia e a volte anche le gambe.
Una politica, questa, decisa dal ministro
della difesa Yitzhak Rabin. Sperava di
spezzare la resistenza palestinese, ma il
risultato fu l’opposto: essa continuò e, per
tutto il primo anno, fu sostanzialmente
nonviolenta, a parte il lancio di pietre di
bimbi e ragazzi.
Dal 19 settembre 1989 partì una
pesante campagna militare contro Beit
Sahour, con l’obiettivo di distruggere la
sua economia, attraverso assedio della
città, rotture di braccia, imprigionamenti
anche di bambini e saccheggio di negozi,
fabbriche e residenze.
La popolazione resistette in diversi
modi, in particolare sviluppando forme di
autosufficienza, a esempio alimentare,
con allevamenti e orti distribuiti fra le
case.
Nei fatti l’Intifada stava diventando
qualcosa di più di una semplice rivolta: un
modo per costruire una nuova società,
per mettere le basi per un cammino di
indipendenza del popolo Palestinese.
I Palestinesi dei territori occupati,
soprattutto i giovani e le donne, hanno
imparato ad autorganizzarsi e a prendere
l’iniziativa dal basso, mettendo in crisi le
tradizionali strutture di potere proprie di
una società fortemente patriarcale.
I Palestinesi ne hanno viste di ogni. Non
soltanto furono privati della loro terra
madre ed espulsi dalle proprie case nel
1948, al fine di far strada ai numerosi
conquistatori israeliani che inondavano la
Palestina con la promessa di un auto-
proclamato Stato ebraico, ma furono
anche stati trascinati in un tortuoso
viaggio verso l’ignoto.
Oggi i Palestinesi sono vittime di un
progetto imperialistico che nega la loro
esistenza e quella del loro diritto
all’autogoverno, in una terra in cui
migliaia di anni fa i loro antenati avevano
posto radici.
Fino a oggi, il progetto sionista ha avuto
dalla sua i partiti politici più influenti,
malgrado le eclatanti violazioni del diritto
internazionale e delle risoluzioni delle
Nazioni Unite a favore dei diritti dei
Palestinesi.
Quello che Israele non ha potuto usare
come merce di scambio, a ogni modo, è
stato l’impegno di un popolo
perseguitato, il suo ferro non ha potuto
sfidare le pietre che, a una distanza
ravvicinata, venivano lanciate verso le
truppe pesanti e i carri armati militari.
Tuttavia, sebbene da tempo le loro
capacità fisiche e i loro corpi vulnerabili
siano stati messi alla prova, mai hanno
vacillato i loro animi imbattibili e i loro
desideri indistruttibili.
Tutto ciò pose le basi per la cosiddetta
“Guerra delle Pietre”, che da quel giorno
del 1987 ha visto alimentare la
determinazione di un popolo
profondamente devoto alla propria terra
e ai luoghi sacri, in un momento storico in
cui le superpotenze mondiali avevano,
ormai, già voltato le spalle alla Palestina.
Certo, la nonviolenza non ha portato
alla fine dell’occupazione della Palestina
da parte di Israele, forse anche perché
troppo presto abbandonata. Ma ha
cambiato in meglio la società palestinese
e ha mostrato la sua potenziale forza e
resilienza.
C’è ovviamente da considerare che,
mentre nel caso dell’Ucraina, gli Usa, con
tutta la loro forza economica e anche
militare, stanno nettamente dalla parte
dell’aggredito, nel caso della Palestina è
l’aggressore, cioè Israele, che gode del
loro appoggio.
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