Papa Francesco: un anno fa l'elezione a Sommo Pontefice di Jorge Mario Bergoglio

CITTA' DEL VATICANO. Dopo avere moltiplicato per dodici mesi pani e pesci, nel giorno dei festeggiamenti Francesco si è nascosto sul monte a pregare, “sapendo che venivano a prenderlo per farlo re”. Ma non lo ha fatto in solitudine. Con una variante rispetto al copione evangelico, ha voluto con sé anche gli apostoli, onde evitare che nel frattempo si concedessero in sua vece ai riflettori. Come un monarca in esilio con tutto il governo. Per rammentare a ciascuno e a se stesso che il suo impero, sebbene abbia ritrovato i fasti passati, non appartiene a questo mondo.
Nel frangente di massimo assenso, con una trovata da geniale drammaturgo, il Papa si è sottratto alle ovazioni plebiscitarie, cosciente che siamo solo alla fine del primo atto e in futuro non mancheranno i colpi di scena.
Da un finestrino all’altro: dal pullman che domenica lo ha portato sui Colli Albani, nella Casa Divin Maestro, a quello che un anno fa lo riportò nella Domus Sanctae Marthae, uscito dalla Sistina, con l’abito bianco ma conservando le scarpe nere. Mentre le ruote inghiottivano la strada come fosse la pellicola di un film, Bergoglio ha rivisto e rivissuto in flashback, dentro di sé, immagini e gesti, passaggi e paesaggi della propria epopea.
L’abbraccio vertiginoso della folla che lo segue a distesa, sulla spiaggia senza fine di Copacabana, e le braccia protese a inseguire un fiore, nella vertigine senza fondo di Lampedusa. Lo slancio vittorioso di un galoppo mediatico nel deserto siriano, in difesa di Damasco, e il passo silenzioso della marcia diplomatica nelle pianure ucraine, alla volta di Mosca. Le aperture pastorali e le fughe in avanti del Pontefice, su divorziati e coppie gay, e le strette dottrinali e ritirate dei vescovi, nella lunga vigilia del sinodo. Le norme di avanguardia sulla trasparenza finanziaria, imposte dall’alto dal Papa, e le resistenze ad applicarle all’atto pratico, opposte dal basso dalle vecchie guardie.
Pensieri che nella quiete dei Castelli Romani lambiscono la meditazione di Francesco, come il vento che increspa il lago, trasmettendogli la sensazione che la cattedra di Pietro, in questa congiuntura, sia posta sul ciglio di un cratere dormiente. Non solo in chiave di metafora.
Con la complicità evocativa della Via Appia, dove i chilometri misurano i secoli, Begoglio ha ripercorso gli highlight di un anno intero, come pietre miliari di un racconto che è già storia e rispetto a cui non si può tornare indietro. Un bilancio dei successi ottenuti, insperati e impensati, ma anche dei processi incompiuti, aperti e problematici. Comunque irreversibili. Nel dubbio, semmai, che basti un sinodo a portare il peso della riforma nel suo insieme e che questa, evolvendo in rivoluzione, non conduca invece inesorabilmente verso un concilio.
Anche perché, a ben vedere, un “concilio” è già cominciato e in pieno svolgimento, seppure in forma sperimentale e con formula inedita, come si addice a un Papa diplomato in chimica e poco diplomatico, esperto però nell’innesco di reazioni a catena: promotore di un’assise universale ad assetto variabile, in cui per la prima volta tutti, credenti e non, dall’uomo della strada e fruitore massivo di free press al fondatore di testata e padre nobile dell’opinione laica d’autore, si sentono felicemente, efficacemente coinvolti. Di più, convocati.
Nell’attesa delle riforme, allo studio del Consiglio di Cardinali, è dunque già in opera una rivoluzione, di Papa e di popolo, che ai porporati resterà difficile non ratificare, almeno nei suoi tratti fondamentali. Pena il tradimento delle gigantesche aspettative suscitate dal Pontefice argentino, venuto dai confini del mondo e ormai saldamente installato al centro dell’immaginario collettivo.
Per paradossale che possa essere, a un anno dal conclave siamo passati da una Chiesa di minoranza, invisa per l’ingerenza nella vita della gente, a uno schema rovesciato e maggioritario, dove la gente “ingerisce” gioiosa nella vita della Chiesa: quella che si direbbe una dinamica dell’alternanza. Non solo nei numeri, ma nei sentimenti.
Per questo, mentre da un lato del Tevere si approva con fatica l’Italicum, nello sforzo di affrancare il Paese dal vizio consociativo, sull’altra riva si celebrano le virtù del “Petrinum”, come ci piace definire il sistema in vigore per l’elezione dei papi: che dal concilio a oggi ha sempre prodotto governi politici, mai di transizione. Di indirizzo e non di mediazione. Merito del vento misterioso che soffia nel microcosmo della Sistina, provocando improvvise correnti ascensionali, a sostegno di figure dal profilo alto, progressiste o conservatrici che siano, e azzerando improvvide intese orizzontali, che mirano al ripiego sui traghettatori.
Letto con le categorie della scienza politica, il risultato del 2013 rimane un non senso, che le dietrologie d’annata e anniversario non riescono a spiegare, a meno di arditi contorsionismi, alla ricerca di pianificazioni che non ci furono, da giornalismo divinatorio più che realistica cronistoria. Detta brutalmente, sarebbe come se il partito che la volta precedente aveva vinto, e che nel frattempo ha consolidato le posizioni, con l’ingresso di sessantasette elettori su centoquindici, nominati da Ratzinger, decidesse di cedere la premiership al candidato dell’opposizione. Impossibile più che improbabile.
Ma c’è un algoritmo divino che in casi come questo fa la differenza, nei momenti di massima crisi dell’istituzione, ribaltando i giochi e logiche. E assegnando un premio decisivo di maggioranza. Solo allora le ragioni della discontinuità, di per sé minoritarie nella Chiesa, prendono eccezionalmente il sopravvento, dopo un periodo di lungo e non più sostenibile immobilismo. Accadde già il 28 ottobre 1958, in una cornice storica e matrice psicologica simile a quella di un anno fa, quando il barometro della Sistina si attestò sulla temperatura emotiva che aveva portato all’elezione di Papa Giovanni.
Guardandosi negli occhi dai banchi del conclave, la sera del 13 marzo, i cardinali si saranno immaginati a vicenda mentre allargano le braccia, in successione, sul balcone della basilica. Per capire chi fosse il più idoneo, il più convincente nel ruolo. Ed è in quel momento che il viso e il sorriso di Jorge Bergoglio, nel microcosmo di Michelangelo, hanno messo in funzione l’algoritmo e l’istinto di sopravvivenza di un collegio millenario, trasformando il voto delle porpore in un segno e in un seggio di speranza per il mondo.

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