D'Alema 'Il Peggiore'? Colpa di Jessica Rabbit

di Francesco Greco - Sospira Jessica Rubbit: “Non sono così, sono gli altri che mi dipingono in questo modo…”. Lo diceva l’Avvocato: “Nessuno come D’Alema riesce a rendersi antipatico in pubblico come simpatico in privato”. E la madre Fabiola: “E’ uno che nasconde i sentimenti”. Chi è D’Alema? Un professionista della politica (“una scienza”) con un alto senso delle istituzioni e lo Stato, incapace di tenersi una battuta salace, cromosomicamente declinante verso la real politik (Sartori dice “passione per l’intrigo”), un po’ cinico, ma alla romana, spregiudicato (con dalemiani e dalemini ha un rapporto che rievoca Alessandro coi suoi generali, ma spesso finiscono nei guai: il copyright nacque a Palazzo Chigi, la merchant-bank , “Arricchitevi!”)? La versione levantina di Andreotti, il dioscuro di Vanna Marchi con cui cerca di “riscrivere le regole”, il Giano bifronte di 20 anni vissuti perigliosamente, in simbiosi col “muratore” che ora è più forte che pria, mentre il lider maximo resta “con il fango che si attacca alle zampe”? Diciamo…

   Uno, nessuno, centomila: un ‘Ntoni che recita a soggetto, da decodificare con una password polisemica: psicologica, antropologica, genetica, psicanalitica, filologica. Politico 3d, complesso, barocco, banalizzato (da Bocca a Pansa a Scalfari: fuoco amico). “Io, io, io…”: molta autostima, come dev’essere per chi vuol lasciare un segno nella Storia, aprirsi un varco nel tempo. Chiaroscuri, geroglifici, sciarade. Alle feste Pd eccita la platea in crisi di identità col refrain: “Era ed è ineleggibile”. La sera, ponentino romano, chèz Letta alla Camilluccia, a tavola e sul divano col Caimano, lo trova “amabile e simpatico”, pasta al sugo e la crostata dell’inciucio della Sora Maddalena (18 giugno 1997, ma forse si trattava di un tiramisù). A me gli occhi, please… Un passaggio che non si spiega è la visita a Mediaset (4 aprile 1996), a rassicurare il brain-group di Vanna Marchi e i suoi “pesci voraci” sul futuro della tv-spam, apparì a Emilio Fede. (“E’ un uomo di parola…”) ipse dixit Confalonieri. Forse Prodi (con Veltroni “flaccidi imbroglioni”) “non capisce un cazzo di politica” ma aveva intuito che nel ’94 irruppe “un’anomalia” (lo era sin dal ‘57), ma il baffo “cinico e baro” forse la sottovalutò. Diciamo…

   Pudico, timido, tratti pedagogici (prima la strategia poi le alleanze), un pò guascone un po’ strapaese (parte o arriva sempre da un viaggio: parla correntemente l’inglese nonostante il FT, diverte sentirlo raccontare cosa si disse con i cinesi capitalcomunisti, Clinton, Blair, i grandi della Terra), scarsa empatia con i giornalisti (è iscritto a un ordine che formatterebbe domattina): “Tu non mi vuoi più bene?” s’illanguidisce offeso nel suk del Transatlantico costretto “per lavoro” a leggerli, ma sarebbe “un senso di civiltà lasciarli in edicola”. “Abbiamo vinto nonostante i tuoi giornali” (a De Benedetti nel 1996), Ma anche tormentato, dostoevskjano: 78 giorni di “angoscia” per la guerra nel Kosovo (primavera 1999) “senza copertura delle Nazioni Unite…”, fuori dalla Costituzione e il figlio del partigiano Pino, Brigate Garibaldi, a capo del governo (idea di Kossiga), lacerato dai sensi di colpa: il “suo” popolo non capisce, acrobazie dialettiche per negare la guerra, “1000 tonnellate di esplosivo al giorno”. Orgoglio: “Non siamo una portaerei”, dice agli Usa determinato a far restare l’Italia in A. Pregiudizio: Ds=SS, D’Alema boia (sui muri italiani). “Palese eversore” (Vendola). Un’iniziazione alla Jhon Dos Passos. Diciamo…

   Libro preferito: “L’arte della guerra”, Sun Tzu, 2300 anni fa. Videogioco: “Tetris”; irrompe sempre l’imprevisto, come in politica. Gioco: il risiko. Un moralismo frusto, da articolesse acide, prima lo sfotte per il look da “parrucchiere di provincia”, poi lo annoia per la fissazione per la griffe, il cachemire, la vacanza in Engadina, la barca, le scarpe artigianali, un po’ di champagne. Le toppe al culo fanno radical chic ma sono il must che svela integrità morale e intellettuale? Ma D’Alema è un tipo “paziente”. Tuonò Nietzsche: “Fuori i moralisti dalla politica”. Diciamo… Intrigante, verace, con un suo algoritmo, un’alchimia, la sua parabola scannerizza mezzo secolo di storia patria ne “Il Peggiore” (Ascesa e caduta di Massimo D’Alema e della sinistra italiana), di Giuseppe Salvaggiulo, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 256, € 13.90. C’è dell’enfasi nell’attribuirgli la crisi della sinistra, un puzzle in cui districarsi è arduo come nella selva oscura e quando trovi il filo, come nel gioco dell’oca, devi tornare all’inizio.

   Da premier (1999) suggerisce a Cuccia un successore per Mediobanca: Draghi. Ma ha già scelto Maranghi. Dopo Prodi, anche Monti è una sua “creatura”, lo arruola a sinistra (“Dovete farvelo piacere”, Lecce agosto 2012). Questo saggio nervoso, dall’atout neorealista, svela un D’Alema difforme da quello che ci “vendono” i media: le due icone non coincidono. E pone un solido interrogativo: come sarà storicizzato? Statista e padre della Patria (“Churchill”?) o uno dei tanti, capace di intuizioni, immaginare scenari? Tutta la sua storia è tesa all’affermazione del primato della po-li-ti-ca vissuta come mission appassionata (“animale selvaggio”), il suo azzardo aver capito di dover cooptare nella dialettica quotidiana il capo di un partito benché feudale, di proprietà, “cesarista”, ma di massa. Andava fatto nel supremo interesse di un “paese normale”, oltre la Guerra Fredda e il Muro di Berlino: anche B. gli riconosce “accenti di verità”. In un Paese dove è sempre 8 settembre, la Storia ha chiamato, lui ha risposto: qualcuno doveva sacrificarsi, fare il lavoro sporco.

   D’Alema-Penelope ha tessuto la tela fatto con raffinata, magnogreca intelligenza politica, esaltata da un atout di decisionismo nel tempo contratto che attraversiamo, stremandosi, senza dar retta alle viscere, in una liason dangereuse priva di etimologia, quasi uno scontro di civiltà. Proviamo a pensare cosa sarebbe successo senza la “Grande Legittimazione (Paola De Caro)”: la guerra civile? Digiuno di marketing, pur avendo antenati mercanti del deserto, è stato travolto dal Guido Angeli dal potere economico illimitato, mediatico osceno, politico inquietante, sponda di un’etica devastata. Il “caro estinto” s’è tenuta la “roba”. La sua tragedia è aver creduto lealmente nel dialogo, senza se, senza ma né populismi, sopraffatto dal “dovere del realismo”, mentre ogni parola del vu-cumprà era riferita al suo (basso) impero, “la ciccia” che oggi vale 25 volte di più, per “Forbes” il patrimonio è passato da 1.3 a 7,8 mld di $ (se stacca l’assegno per l’Imu non muore di fame). Trasfigurandosi (“Attrazione fatale”, la Repubblica) nella pappa reale di B. Il “romanzo d’appendice”, la fiction è al the end: una nuttata 4 lustri di intelligence col nemico, di riformismo senza riforme, citazione, corsi e ricorsi, di quello rinfacciato a Craxi, anche se al craxismo riconosce “elementi di verità”. Diciamo…

   In stand-by per il Quirinale, di cui adora le sconfinate cucine, adatto ai suoi “ritmi di lavoro blandi”, eterno ragazzo dall’aria impertinente di Peter Pan, in certi snodi fa tenerezza (la 127 blu, la molotov, gli origami, l’ironia: Posso farle una domanda? “L’ha già fatta!”), dev’essere sdoganato dalla voce “dalemoni” e riletto con archetipi analitici più avanzati, meno irrisi dalla morale cattolica. Dal dialogo con chi ritiene ormai “il passato”, un “cane morto” esce a tocchi, ma è riuscito a disancorare la sinistra dalle paludi accademiche dell’Ottocento e la III Internazionale e scagliarla nel III Millennio dell’android. Novello Cesare, l’uomo che senza tregua s’è speso per la causa, dicendo spesso cose di sinistra sfuggite a tanti e avendo come paga molta ”monnezza” e qualche pugnale (forse l’aveva messi in conto), merita stima e rispetto. Diciamo…

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