Dal manicomio alla psichiatria filosofica, una sfida possibile


di Eliana Forcignanò - Spettro del passato o incubo ricorrente, i manicomi sono stati dismessi in Italia da circa 35 anni: tanti ne sono trascorsi, infatti, dall’emanazione della legge 180 del 13 maggio 1978, meglio nota come Legge-Basaglia dal nome del suo ispiratore che, tuttavia, non ebbe parte alcuna nella redazione del testo. Sulla legge 180 si discute ancora; ancora il Paese si spacca fra sostenitori e avversari di una politica che, fra luci e ombre, continua a rappresentare una scelta di civiltà nei confronti della salute pubblica, benché dire basta agli ospedali psichiatrici non significhi dire basta ai disturbi psichici. Di questo Basaglia era a conoscenza, nonostante si sia cercato più volte di trascinare il suo pensiero e il suo operato nelle secche dell’antipsichiatria, la quale nega la malattia mentale, le tassonomie nosografiche, le cure di matrice farmacologica e psicoterapica, lo statuto epistemologico del lavoro psichiatrico.

   Ieri come oggi, discutere sulla 180 equivale a impantanarsi nell’amletico quesito – ma del tutto vano – relativo al ripristino delle strutture manicomiali: non appena si verificano inenarrabili fatti di sangue che annichiliscono l’opinione pubblica, i sostenitori del manicomio tornano ad accampare le loro pretese con la trita formula del “rinchiudiamo i colpevoli e gettiamo via la chiave”, come se una simile scelta risolvesse i problemi, estinguesse magicamente il male e sopperisse alle carenze di un sistema sanitario che non ha né le finanze né le strutture adeguate per monitorare costantemente i casi a rischio. Occorre peraltro ricordare che gli ospedali psichiatrici giudiziari sono ancora in piedi, ennesima oscena contraddizione tutta italiana che ci assimila a Paesi per anni soggetti a una dittatura come, per esempio, l’Argentina.

   Perché la questione rimane “sorvegliare e punire” – per citare Foucault che Basaglia conosceva quasi a memoria – e non, invece, accompagnare e assistere, restituendo al verbo “assistere” il significato che esigerebbe la sua derivazione latina, ossia “star presso”, “fermarsi”, ma oggi il tempo di fermarsi, anche solo per riflettere, non c’è più. I Centri di salute mentale, baluardo della 180, sono perennemente soggetti al fenomeno del burn-out, a causa della carenza di personale e della mole sempre crescente di prese in carico. Lo psichiatra effettua la visita, prescrive i farmaci e invia, quando possibile, allo psicologo: questa è la prassi dei Centri, tuttavia non è raro che, anche dietro prescrizione del medico di base, i pazienti siano costretti ad attendere mesi prima di avere un primo contatto con lo psichiatra referente. Sui giornali, però, si legge soltanto delle Tac e delle ecografie rimandate: di salute mentale si parla pochissimo, quasi che i disturbi psichici continuassero a essere una colpa e una vergogna. 

   Le frange più accese dell’antipsichiatria non si rendono conto che, negando la malattia mentale, contribuiscono in modo significativo a evadere il problema dell’assistenza. Eppure, come scriveva Giovanni Jervis, dispercezioni e catatonia non sono riconducibili soltanto a un problema di cattivo adattamento temporaneo alla società. La malattia mentale esiste in quanto singolare combinazione di fattori biologici, psicologici e sociali: negarlo significa, paradossalmente, accentuare la discriminazione sociale ed eludere il problema del trattamento. Anche il cancro può essere favorito dallo stress, ma nessuno si sognerebbe mai di affermare che non bisogna curarlo, perché, invece, la schizofrenia deve risultare una “questione opinabile”? Può darsi – e non è detto – che lo schizofrenico fosse in origine un adolescente maltrattato e male adattato alla società: l’anamnesi orienta lo psichiatra sui protocolli di terapia, ma precludere a chi soffre un trattamento psicofarmacologico e psicoterapico per questioni di principio che poi non sono nemmeno tanto limpide non è umanità, è omissione di soccorso.

   Optando per la chiusura dei manicomi, Franco Basaglia ha restituito alla psichiatria il suo afflato umano: chi ha letto la raccolta dei suoi scritti L’utopia della realtà, edita da Einaudi nel 2003, sa che Basaglia intendeva sottrarre al medico psichiatra l’esercizio di potere sull’ammalato e sul corpo dell’ammalato, il che potrebbe essere tradotto nel monito agli psichiatri a evitare il bombardamento psicofarmacologico che, a volte, si effettua scriteriatamente nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura – istituiti dalla 180 – prima ancora di aver effettuato un’osservazione clinica. La legge parla chiaro su questi Servizi: il paziente che vi entra, anche sotto TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio che purtroppo prevede il ricovero coatto per un periodo di tempo dai cinque ai sette giorni) non perde il godimento “dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura”.

   Se i manicomi decretavano la morte civile – e con il tempo anche fisica – della persona, i Servizi psichiatrici rappresentano una pausa temporanea, un momento di respiro e di protezione dalla malattia e dall’incomprensione che sovente le famiglie manifestano di fronte al problema. Resta da chiarire la questione del “dopo”: quando i Centri di salute mentale non bastano, ci sono i diurnati e le comunità riabilitative, benché i tagli alla sanità abbiano ratificato la sostituzione delle strutture pubbliche con le famigerate residenze assistite gestite da privati. E poi, le comunità riabilitative hanno ancora addosso l’odore del manicomio e, forse, lo avranno sempre benché il tempo di permanenza del paziente sia limitato.

   Ãˆ inutile illudersi sull’assenza di criticità nella legge 180, ma l’imperativo categorico è che i manicomi restino soltanto un brutto ricordo, mentre la psichiatria intraprenda finalmente un cammino di ricerca che è anche di autoanalisi sulle sue possibilità e sui suoi limiti. Ciò significa niente protocolli di cura standardizzati, ma plasmati sui bisogni del paziente; aggiornamento continuo delle metodologie d’indagine; costante integrazione con la psicologia e – perché no? – con la filosofia. Basaglia aveva letto e intervistato Jean Paul Sartre e qualcuno lo soprannominava quasi con sprezzo “lo psichiatra filosofo”: il suo non era un mero atteggiamento, ma un metodo che, una volta seppellita l’ascia di guerra del pregiudizio, si dovrebbe rispolverare.    

Posta un commento

0 Commenti