Omaggio a A. Héléna: inventò noir per i proletari


Francesco Greco. Tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, l’Europa fu invasa da una moda che la critica non elevò mai al rango di corrente letteraria: il noir di facile scrittura, senza pretese stilistiche, scritto da autori marginali e consumato dalle classi povere. E forse è proprio questa la “chiave” per spiegare la spocchia dell’accademia nell’approccio all’opera dei suoi mentori. I quali per primi sapevano di non poter competere con Proust e Balzàc, non riconoscendo alle loro opere caratura intellettuale e filosofica.

   Protagonisti di quei romanzi erano uomini sbattuti dai marosi della sorte, condannati a vite marginali, borderline, disperati, perduti. Come quelle degli scrittori le cui vicende personali, parabole esistenziali,si potevano leggere in controluce. Essi scrivevano della “vita che è uno schifo” (locuzione che potrebbe essere presa a manifesto) per portare a casa il pane e magari anche il companatico, bere molto e magari in compagnia di una donna.

   Quegli scrittori hanno nomi che a stento si ricordano: Léo Malet,  Jean Amila, Georges J. Arnaud. Il caposcuola riconosciuto del noir francese è però André Héléna, di cui nel 2012 è caduto il quarantennale della morte (era nato nel 1919, morì a novembre del 1972). Nella sua vita usò numerosi pseudonimi. Tradotto in Germania e negli Usa, negli anni Ottanta in Francia ripubblicarono i suoi romanzi in una collana dal titolo che è tutto un programma: “la piesse” (la sfiga, altro “manifesto”).

   Gli rende omaggio l’editore sardo Aìsara, che nel 2009 ha pubblicato “Gli sbirri hanno sempre ragione” e che manda in libreria “Le Prince Noir” (omaggio ad André Héléna), pp. 288, € 16, a cura di Alessandro Greco, con bella prefazione di Serge Quadruppani. 12 storie “nere” firmate da scrittori italiani emergenti in un tribute a un “maestro” la cui opera è in questo tempo oggetto di rilettura e rivalutazione, anche perché quei noir furono successi commerciali: tirature alte che oggi però non è possibile però replicare. “Era il periodo di una letteratura popolare – ricostruisce Quadruppani – che si reggeva su un contratto fra autore e lettore: per una modica cifra si potevano avere, per il tempo di un tragitto in treno, un buon numero di colpi di scena, un crimine o un idillio con soluzione finale garantita, senza che l’autore perdesse tempo in fioriture di stile o scrupoli filosofici”. I poveri si sa non hanno molto tempo né per leggere né per le speculazioni filosofiche. Aggiunge Quadruppani (rifetito a Héléna): “Quel che colpisce costantemente nei suoi scritti è lo sguardo che posa sulla condizione umana: disperato e ironico, feroce con i potenti, ma tenero con le puttane, i piccoli malfattori e tutti i miserabili”.

   Uno “sguardo” che il “maestro” contagia ai suoi allievi e che rievoca Lovecraft, si contamina di Edgar Allan Poe, ma anche di certo cinema di genere, da Romero a Dario Argento. Della gallery proposta, il racconto più notevole è “I viaggiatori del venerdì”, di Sasha Naspini: se il “maestro” fosse vivo forse lo riconoscerebbe come suo. Protagonista un pittore scalcagnato (“I miei quadri non erano certo da museo…”) che vive con la figlia mongoloide, Angèle (sua madre è morta mettendola al mondo), irritato dal fatto che manco gli dice grazie per il tempo che le dedica per accudirla, né si sogna di chiamarlo “papà”. Costretto a una vita senza senso, un giorno ha una sorta di illuminazione: “Una mano divina tracciò per me un quadro invisibile”. Entra così in una dimensione di follia omicida in cui trascina l’amico Bernard, altro fallito, “uomo stanco”, ma “i soldi donano sempre una grande motivazione”.

   Apprendiamo che il successo dei grandi pittori si deve anche ai coloristi che procuravano loro i colori mescolando erbe e pietre. Senza di loro nemmeno Cézanne, Toulouse-Lautrec  e Gaugain “avrebbero potuto mettere in atto la propria arte”. Non toglieremo al lettore il piacere di scoprire cosa accade: alla fine però il pittore diventa famoso e ricco ma si ritrova al posto della figlia sulla sedia a rotelle accudito da Angéline, una badante borbottona, che magari pensa di fargli fare la stessa fine della figlia…

   Altri racconti firmati dai Claudio Bagnasco (Genova), Leonardo Casula (Cagliari), Romano De Marco (Chieti), Daniela Frascati (Roma), Alessandro Greco (Pescara), Paolo Maccioni, Cagliari (“Viva la muerte!”, ambientato nella guerra civile spagnola: originale), Mauro Marcialis (Reggio Emilia), Gianluca Morozzi, Bologna (“Il buon Dio se ne frega”: uno sceneggiatore cerca di vendere un’idea per una fiction a un produttore tv fuori di testa: esilarante!), Luca Occhi (Imola), Luca Salis (Cagliari, 1977) e Giovanni Zucca (Milano).  


Posta un commento

0 Commenti