"Sono un uomo morto", parla Varacalli e la 'ndrangheta trema


Francesco Greco. Quando la ‘ndrangheta si trasfigura in una scuola di pensiero, una filosofia di vita. Incarna una visione del mondo, un’idea della vita, con un suo plateau di (dis)valori, codici lessicali, comportamenti, riti, miti. Legami di sangue e omertà sublimata in silenzi che diventano linguaggi sono il cemento che tiene insieme l’onorata società che nata in Calabria è partita alla conquista del mondo. Nascondere la sua esistenza, farsi percepire, low profile, undertstatement sono le sue password ossificate in veri e propri archetipi (“La ‘ndrangheta, quella vera, ti insegna che non bisogna fare rumore”). Il delitto d’onore extrema ratio, solo quando lo sgarro è irreparabile e irrimediabile con altre opzioni, quindi diviene strettamente necessario per la sua affermazione e difesa dell’immagine, per ristabilire e consolidare i suoi principi fondanti anche in termini pedagogici.

   Un giornalista incontra un pentito, ed è già una notizia perché sono rarissimi: perché fare il grande passo passando dalla parte della legge per le ‘ndrine dell’Aspromonte equivale a condannarsi a morte, a vivere con la comare secca addosso. E’ stato questo l’input di “Sono un uomo morto” (Parla il pentito che ha svelato i segreti della ‘ndrangheta al Nord), Chiarelettere, Milano 2013, pp. 178, € 13.90, collana Principio Attivo. Il cronista che intreccia un canovaccio insospettato, a tinte cupe, si chiama Federico Monga, napoletano. Il pentito – uno dei rarissimi, ripetiamo: l’onorata società calabrese è retta da una “ferrea struttura” che eleva un muro del silenzio, uno stereotipo che alimenta la sua forza e la ferocia, oltre che l’imbattibilità - dalla memoria formidabile, si chiama Rocco Varacalli, nato nel 1970 a Natile di Careri, Reggio Calabria, due mogli, quattro figli, detenuto a Torino.

Così nasce quello che può essere letto anche come un saggio di antropologia criminale, uno spaccato sociologico dell’Italia degli ultimi decenni con uno sguardo a 360 gradi, che non esclude nulla, “intrighi con la politica e l’economia” su tutto. Il racconto è essenziale e teso come un film neorealista, non tace nulla, vive di pennellate energiche che si possono reggere solo avendo lo stomaco forte.

   Un “romanzo criminale” scritto dall’interno dell’organizzazione, da un uomo che ne assorbe i codici sin da piccolo col latte materno, e il cui destino appare fatalmente segnato dal contesto, dai rivoli di sangue, dal dna. Certo, Varacalli ci mette del suo in audacia, intelligenza e desiderio di profittare dell’ascensore sociale offertogli dalla ‘ndrangheta diventando uno dei trafficanti di droga più rispettato del Nord Italia, altrimenti si sarebbe spaccato la schiena a vita sui cantieri edili anche questi in odor di malavita.

   Il “morto che cammina… la ‘ndrangheta non perdona…”  Varacalli parla – 12 anni di “militanza” fra omicidi, droga (“Chi spaccia e consuma fa una brutta fine”), armi, estorsioni, ecc. glielo consentono - dal cuore dell’organizzazione, e più parla, più si percepisce l’abbandono dello Stato, la resa incondizionata sotto l’aspetto culturale, dacché a combattere la mafia calabrese ci pensa solo qualche magistrato coraggioso con operazioni (la “Minotauro”, giugno 2011, 150 arresti, la ”Riace”, 1994-95, l’Esercito dispiegato contro le ‘ndrine) tendenti a disarticolarne i tentacoli che abbracciano ogni continente (Europa, Africa, Sudamerica) e ogni scomparto dell’economia in una diversificazione assicurata dai “colletti bianchi” che consentono alla mafia calabrese di stare al passo con i tempi e di approfittare di tutte le interfacce offerte dall’epoca dei pixel.

   Varacalli parla (quel che dice regge l’inchiesta “Stupor mundi”, maggio 2007, del Procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri, 40 arresti, 300 kg di cocaina) e la ‘ndrangheta trema. E’ documentato, ricorda il minimo dettaglio. Le sue parole sono ritenute valide da due sentenze. La ‘ndrangheta, “l’organizzazione criminale più potente e ricca”, delocalizza al Nord (Piemonte e Liguria dice il pentito, ma sappiamo dalle cronache che tutto il Nord è infiltrato, dalla Lombardia all’Emilia Romagna) fiutando il business e lucrando ovunque scorra denaro, specie se pubblico. Stando alle parole del pentito, affiliato dal 1994, pentito dal 2006 quando fu arrestato, non c’è nulla che s’è mosso in questi anni che non l’abbia penetrato con la forza pervasiva della sua azione: Alta velocità (voracità), Olimpiadi invernali (2006), il Centro commerciale “Le Gru” (all’inaugurazione le ‘ndrine stringono la mano al Cavaliere che è presidente del Consiglio), la Torino-Milano, il porto di Imperia e quant’altro.

   Il libro scorre senza pause, né sbavature e pagina dopo pagina in controluce vedi l’Italia degli ultimi 30 anni. Malagiustizia inclusa.  Il pm chiede 9 anni, il gip gliene dà 12, poi scesi a otto, ma Varacalli esce un anno dopo “perché la sentenza non era stata depositata. Solo la malagiustizia mi ha salvato”. Scopriamo alleanze fra mafie e convergenze per interessi, i rapporti con lo Stato, le forze dell’ordine, la massoneria, il codice d’onore dell’affiliato e i riti di affiliazione (“Si fa colare il sangue sull’immagine di san Michele Arcangelo, protettore della ‘ndrangheta…”), le gerarchie e gli equilibri che le reggono, cos’è la dote, la carica, il fiore, il pacco dell’emigrante, ecc. Alla fine apprendiamo che dal 2004 il pentito, attraverso un meccanismo di “capitalizzazioni”, a fine carriera si becca il tfr: chissà se lo sanno gli operai della Bridgestone?

Posta un commento

0 Commenti