Bruxelles, 7 novembre 2025 – Si chiamava Siska De Ruyssche, aveva 26 anni, e da anni combatteva una depressione profonda che nessuna terapia era riuscita ad alleviare. Domenica scorsa ha scelto di porre fine alla sua sofferenza ricorrendo all’eutanasia, legale in Belgio dal 2002. È morta circondata dagli affetti più cari, dopo aver affrontato con lucidità e coraggio un percorso doloroso ma consapevole.
Una vita segnata dal dolore e dal silenzio
Siska, giovane fiamminga, aveva raccontato la sua storia a diversi media locali con l’intento di rompere il tabù della sofferenza psichica. Sui social, fino a pochi mesi fa, si mostrava sorridente, con i capelli lunghi e il volto luminoso, ma dietro quelle immagini si nascondeva una battaglia quotidiana.
“Alzarsi, vestirsi, anche le più piccole cose erano diventate una lotta impossibile”, aveva confidato. Quella che sembrava una vacanza rigenerante in Thailandia, la scorsa estate, era in realtà – come lei stessa aveva ammesso – “un ultimo tentativo di vivere”.
La denuncia: “Sono il prodotto di un’assistenza carente”
Poche settimane prima della sua morte, Siska aveva rilasciato una lunga testimonianza al quotidiano fiammingo Het Laatste Nieuws, denunciando la lentezza e le carenze del sistema sanitario mentale belga:
“Racconto la mia storia perché credo che molte cose possano essere migliorate nell’assistenza. Procedure, liste d’attesa, ricoveri, rimborsi. Io stessa sono il prodotto di un sistema carente. Sono stata legata a barelle, rinchiusa in celle di isolamento, e ho visto infermiere alzare gli occhi al cielo come a dire: ‘Eccola di nuovo’.”
Siska non voleva soltanto spiegare la sua scelta, ma lanciare un appello per chi, come lei, si sente intrappolato nel buio e non trova risposte nel mondo medico o nella società.
Il lungo calvario
Il suo dolore aveva radici lontane. Fin da bambina, raccontava, era stata vittima di bullismo: “Pensavo di non essere abbastanza”. A 14 anni tentò per la prima volta il suicidio. Da allora ci furono decine di tentativi falliti, alternati a momenti di apparente serenità: l’amore, i viaggi, il lavoro con i minori.
Aveva provato ogni tipo di terapia: “Terapia della parola, sportiva, creativa, EMDR, familiare, con gli animali… Ho preso farmaci. Quanto ancora avrei dovuto provare?”, scriveva con amarezza.
“Ora sono in pace, perché so che finirà”
Dopo anni di ricoveri e ricadute, Siska aveva ricevuto una diagnosi definitiva: grave disturbo depressivo, disturbo dell’attaccamento e sindrome da stress post-traumatico. Con la consapevolezza della propria condizione e l’autorizzazione all’eutanasia, raccontava di aver finalmente ritrovato serenità:
“Quando ho avuto la data, ho sentito che tutti i pezzi del puzzle andavano a posto. So che finirà, e per la prima volta provo pace.”
“Egoista? No, ho resistito più per gli altri che per me stessa”
A chi l’ha accusata di egoismo, Siska rispondeva con lucidità:
“In realtà sono rimasta molto più a lungo di quanto avrei voluto. Forse l’ho fatto più per loro – i miei genitori, le mie sorelle, i miei amici – che per me stessa. Ora tocca a me.”
In una delle sue ultime interviste aveva raccontato un episodio che l’aveva segnata: uno psicologo le aveva chiesto perché non si fosse buttata da un ponte. La sua risposta fu disarmante:
“Perché non volevo traumatizzare chi passava. Gli autisti, i macchinisti, i passanti.”
Siska se n’è andata senza clamore, ma con un messaggio forte, lasciando dietro di sé un dibattito acceso sulla dignità, la libertà e il dolore invisibile delle malattie mentali.

0 Commenti