“Nun me posso move”, l’Italia bloccata nel traffico

Francesco Greco. L’auto è un feticcio della modernità, un’icona che fa status. Dice di noi più di quel che vorremmo far sapere la mondo, dalle prime Balilla a manovella ai Gps dei giorni nostri. Rivela la nostra provenienza sociale, l’identità culturale, perfino la tendenza politica (l’ometto col cappello al volante della Simca da robivecchi, col cagnolino che muove la testa sul cruscotto posteriore e che va a 30 orari sul Gra non sarà un progressista). E tuttavia, è anche una sorta di “livella”, nel senso che a bordo del “Suv” ultimo modello o delle “Fiat 127” superstiti, tutti rimaniamo bloccati nel traffico e non solo nei giorni di pioggia. Sia perché i nostri amministratori, al di là dell’inventarsi divieti di transito, sensi unici e Ztl non sanno spingersi e anche perché ormai le auto sono troppe e se non ce ne sono almeno due per ogni famiglia si è guardati come incapienti che della vita non hanno capito niente.

   Forse partendo anche da queste banali riflessioni, lo scrittore e regista Massimiliano Pazzaglia, figlio di Riccardo, geniale assertore del disincanto che plasma la napoletanità fra tv (“Quelli della notte”), cinema, teatro e narrativa (“Il brodo primordiale”) , ha scritto “Nun me posso move”, atto unico modulato sull’ironia amara che, partendo da un ingorgo a un incrocio o piazza nella Capitale, si fa metafora di un Paese, l’Italia, immobile, che non cresce, fra rischi di default e lacrime e sangue, precarietà esistenziale e disoccupazione al 37%, allegoria di un momento storico complesso, segnato da urla antipolitiche e disperazione, dall’ammuina borbonica dei partiti tradizionali, mentre c’è la minaccia reale che nemmeno dalle urne di febbraio uscirà un’indicazione chiara su “che fare” nel futuro prossimo.

   E da chi, se non dalla gente che torna a casa dopo una giornata di lavoro, spesso mal pagato o in bilico, far dire delle verità che toccano tutti, in un Paese bellissimo, pieno di bellezze naturali ed energie creative, ma governato male, da caste, cricche, lobby, logge, cosche, che più male non si può? Appunto: nel traffico (input di molti film di successo), nel flusso di auto che va a singhiozzo si coglie l’umore, si percepisce il respiro della città che trasfigura semanticamente l’intera Italia.

   A cercare di razionalizzare circa due milioni di auto impazzite, fra parcheggi in doppia  tripla fila, ci sono due vigili (“pizzardoni”), eleganti quanto scafati (si pensa d’istinto a Sordi nel “Vigile”). Uno è del Nord (padano?) con un senso civico spiccato, l’altro più umano e tollerante. La commedia (umana) prende corpo quando, all’italiana, il solito furbo occupa il parcheggio riservato a un portatore di handicap.  Cosa fare? Parte lo scontro dialettico fra due scuole di pensiero, due diverse percezioni del reale, due filosofie antitetiche che impregnano la nostra cultura: quella del “vivi e lascia vivere”, del “mi faccio gli affari miei” e l’altra, più responsabile, del “non possiamo sempre girare la testa dall’altra parte”.

   Sarebbe già una tematica impegnativa, bella tosta: accade dal tempo degli Orazi e Curiazi, Guelfi e Ghibellini, interventisti e neutrali, Coppi e Bartali, Mazzola e Rivera, don Camillo e Peppone, innocentisti e colpevolisti. A complicarla ecco una turista brasiliana tutta curve, gambe lunghe e wonderbra. Anche senza samba (solo claxon impazziti e smog da A1) si prende la scena, perché l’italiano è sempre galante, per dna deve dar prova d’essere macho, oltre che un cacciatore in servizio permanente (da Berlusconi che ci prova con tutte al pizzicagnolo del quartiere che taglia il pecorino e fa proposte indecenti alla sora Lory col push-up). Risultato: il traffico è paralizzato nell’ora di punta e anche i “pizzardoni” che dovrebbero redimerlo. Non resta così che affidarsi a una vigilessa, come dire, con gli attributi che non ci sta a veder travolto l’ordine pubblico, e neanche quello “privato”. Intanto intorno il traffico impazzito, in mano ai legionari della tavoletta e delle corna, sciama nelle vie dove 20 secoli fa transitavano, a piedi, le milizie di Cesare e di Augusto.

   Un favola amara sull’Italia di oggi, fra Papi che se ne vanno e Cavalieri che tornano, esodati e “tecnici”, ma anche sulla modernità con le sue patologie deliranti, una riflessione e che è anche denuncia sugli aspetti più critici della quotidianità in cui siamo immersi, senza che si veda la fine del tunnel, della “nuttata” direbbe Eduardo.

   Pazzaglia è anche il regista. Produzione Maritati Group (di Michel Emi Maritato e fratelli) e Annesa Minghi e il patrocinio di Municipio  Roma XX - Assessorato  Cultura e Sport. In ordine di apparizione: Amedeo D’Amico, Fabio Farronato, Simone Tuttobene, Loretta Rossi (in foto), Priscilla Micol Marino. Scene e costumi Fabio Vitale, luci e fonica Umberto Prezioso, aiuto-regia Priscilla Micol Marino, costumi Annamode Roma, voce fuori campo Angelo Maggi.  

   Sipario il 22 febbraio, ore 21, Teatro Cassia (Via Santa Giovanna Elisabetta, 49, tel. 06-96527967, info@teatrocassia.it). Replica il 23. Poi silenzio elettorale. Gli strombazzamenti, i gesti dell’ombrello, il disabile che trova occupato il posto-auto, le promesse meno tasse, gli insulti nei talk-show riprenderanno lunedì. Sennò che Italia sarebbe? Potremmo cambiare nazione, ma una forza magnetica senza nome ci tiene qua, attaccati come il polpo allo scoglio. Come direbbe Pazzaglia (figlio e padre, buonanima) “Nun me posso move”.  

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