Ernesto Rossi “Contro l’industria dei partiti” (paguri)


Francesco Greco. Pare scritto ieri. E questo la dice tutta sul dna della politica italiana e sugli stessi italiani sempre pronti a puntare il dito e assolversi, ma incapaci di una rivolta etica che vada al di là del furore iconoclasta un po’ retorico, che non sia delegata alle toghe, di un mutamento genetico che restituisca dignità alla cosa pubblica e al popolo stesso. Ce ne sarebbe bisogno sia per un senso di stanchezza, sia perché pare una conditio sine qua non per la sopravvivenza stessa della politica oggi che la corruzione è diventata una patologia purulenta e che l’antipolitica e il populismo la afferra per tirarla giù in gorghi limacciosi pregni di incognite.

   E dunque, etica in politica vò cercando. Modulazione ostica a trovarsi, posto che la casta dei politici che col porcellum si autonominano, come al Grande Fratello, lo voglia davvero e non strumentalmente, facendo ammuina, a uso e consumo di polveroni demagogici che confondono le idee ai cittadini. Doppiezza che forma il dna della politica, ma anche componente dell’identità del politico italicus, humus dove si abbeverano le radici del populismo, infide e corrotte perché spargono i loro semi nei cuori e nelle menti dei popoli. Non é un fatto di normativa: anzi, più abbonda e più la corruzione si diffonde in un rapporto direttamente proporzionale: (“In corruptissima Republica plurima leges”, Tacito),e Rossi gli fa eco: “In Italia una buona parte delle leggi si pubblica per dare incremento all’industria tipografica; non per farle eseguire…”.

   ”Contro l’industria dei partiti”, di Ernesto Rossi, Chiarelettere, Milano 2012, pp. 100, € 7, è un instant-book che aiuta a ritrovare una stella polare, sia alla classe politica che si appresta a sedere nel nuovo Parlamento e sia ai cittadini dalla memoria caduca che stanno delegando ancora una volta a uomini che li hanno traditi mille e mille volte nelle loro speranze di etica che ai nuovi che la agitano per conquistare il consenso e poi, almeno così è stato in passato, se ne dimenticano il giorno dopo. Ciò prova che l’Italia è sempre in credito di una rivoluzione liberale vera, ma anche di un afflato di cultura illuminista (vissuta di riflesso): noi che non abbiamo altro valore se non riempirci la pancia e per questo serviamo baroni, conti, feudatari, ieri, i loro cloni nei partiti oggi.

   La stessa rimozione dal quotidiano dibattito politico - ridotto a faccende di escort e di banchieri senesi - di un gigante del pensiero politico del Novecento come questo pensatore appartato quanto modernissimo e attualissimo (soprattutto in queste ore di arresti eccellenti, con colletti bianchi e politicanti che rotolano nella polvere), la dice lunga sulla predisposizione culturale, ontologica, a riflettere della casta ma anche, ripetiamo, dei cittadini che la manda a governare pur sapendo che il suo istinto tende ontologicamente alla corruzione per un fatto di dna, anche per un fatto di cultura cattolica che cancella il peccato con la confessione, di doppia morale, di manicheismo: i nostri sono sempre puliti, i corrotti gli altri. Così la sensibilità personale diventa un optional e quando si legge del ministro tedesco che se ne va perché scoperta a copiare un passaggio della tesi, si pensa di vivere in un altro universo.

   Il “bastian contrario” Ernesto Rossi (così poco italiano: il suo rigore analitico è di matrice illuminista, anglosassone, luterana) rifletteva sul settimanale “Il Mondo” dal 1950 al 1952 (aveva militato in Giustizia e Libertà e nel partito d’Azione) sulla deriva etica dei partiti dall’insaziabile fame negli anni Cinquanta, in piena ricostruzione, quindi dopo Yalta, l’Europa divisa in blocchi, con i partiti ancorati alle ideologie post-Resistenza e gli italiani animati da spirito di solidarietà per rinascere (presupposti del boom economico) e si rivolterà nella tomba sapendo che 60 anni dopo le ideologie sono scolorite e la politica è nelle mani di bande di avventurieri disposti a tutto, incapaci persino di darsi un sistema elettorale decente e che hanno portato il Paese a un soffio dal default, fra “empietà” e “monetizzazione del potere politico”.

   Possiamo dire che Rossi fu un profeta, perché intravide i pericoli per la democrazia, i virus (“malattia segreta”) che oggi indeboliscono il suo tessuto intimo. E lo fu anche nell’intravedere ciò che oggi è, ahimè, una banalità, e cioè che “il successo dei partiti politici  dipende essenzialmente dall’efficienza della loro macchina, e l’efficienza della macchina dipende essenzialmente dai quattrini disponibili”. “I partiti – aggiungeva da voce che urla al deserto – sono ormai colonizzati da interessi inconfessabili e poteri marci e si comportano come i paguri”. Da destra a sinistra, spiega Rossi per il suo tempo (i neri finanziati dai “nostalgici”, i rossi “attraverso le società di importazione”).

   Sapida la prefazione di Paolo Flores d’Arcais, ispirato dalla stessa “intransigenza gobettiana e radicalità azionista: “Questo intreccio perverso fra politica e affari – scrive fra l’altro nel saggio che introduce questo libro che dovrebbe essere adottato nelle scuole per dare alle nuove generazioni un minimo di civiltà politica – che mina la democrazia in quanto distorce profondamente l’eguale sovranità nella decisione pubblica a vantaggio dei signori del vapore, che spoglia della sovranità il cittadino a vantaggio delle cricche”.

   Rossi e Flores sovrappongono la loro critica radicale a un sistema immutato nel tempo: 60 anni sono passati invano. Quanti altri ne passeranno? Amate sponde!

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