Incudine: il Sud della rabbia, le radici, la speranza

Francesco Greco. Metti una notte alla radio, a scoprire Mario Incudine, cantautore, poeta, infaticabile ricercatore, attore siciliano (di Enna), le sue canzoni nate dalle oscure viscere del Sud, il sound rabbioso che bagna i suoi archetipi nel Mediterraneo anche con l’uso del dialetto siciliano. “In realtà - svela Riccardo Rozzera, romano, brillante ufficio-stampa dell’artista – l’incontro di 55 minuti a Radio Uno fu registrato alle 2 del pomeriggio!”.

   “Ti mancianu l’ossa / sti quattri cugghiuni… i voti pe vossia…”. Un’ora che riconcilia col significato profondo della musica, il suo compito ontologico, la sua segreta etimologia, l’immortale mission. “…è malaerba ca nun mori mai”.Relativizza un’idea di musica, autore, canzone. Formatta i “chitarrosi” (così li chiamava il grande satiro Sergio Saviane), gli autoreferenziati e i ruffiani, i finto-impegnati in realtà modulati sul commerciale, e prova che scrivere canzoni è tutt’altro che fare “canzonette” (citando Bennato). Incudine è un “menestrello” che si colloca nel solco della grande musica d’autore, colta e impegnata, quella che ha scritto la Storia surrogandosi nella sua colonna sonora: dalle sonorità di Leonard Cohen a James Taylor, dal cerebralismo insonne di George Brassens alle dolci ballate di Joan Beaz, echi dilatati nell’etos del primo Bob Dylan contaminati dalla passsione civile di Victor Jara. ”E’ na notti di cani randagi / e di ventu africanu…”.

   “…assassini di nottti e di journu cumpari”. Il tutto vive a Sud e perciò ha un retroterra culturale e di valori specifici, che marcano il dna di un popolo, con cui Incudine (nella foto di Laura Finocchiaro) interagisce semanticamente in un’osmosi di intenso, commovente fascino. “…a quinnici mila nni ficiru fori / fimmini, invalidi e sovversivi”

   Dopo aver ascoltato i 13 brani di “italia talìa ” (minuscole dell’autore, forse a dire che contiene gli echi di un’Italia ritenuta “minore”, il Sud), prodotto da Mario Saroglio e “Kaballà” (è il stesto lavoro, miglior album dialettale dopo Enzo Avitabile alle ultime “Targhe Tenco”), con l’intervento di musicisti di prestigio in sinergia con voci intense (su tutte quelle di Simona Sciacca e Anna Vitale) e la pregna introduzione all’opera del menestrello di Carmelo Sardo, lo abbiamo incontrato.        

Domanda: C’è una cifra neorealistica nelle sue canzoni?

Risposta: “Assolutamente si. Se volessimo fare un paragone cinematografico, le mie canzoni sono come la ‘camera stylo’ della Nouvelle Vague francese, come il neorealismo di Truffaut, o la teoria del pedinamento di De Sica e Zavattini. Guardo negli occhi le persone e da lì traggo lo spunto per raccontare la realtà. La mia ‘camera’ si guarda attorno e senza filtri racconta con la musica e la lingua siciliana. Racconto tutto ciò che succede, di una realtà in continuo aggiornamento, da Termini Imerese a Lampedusa, fino alla speranza e alla voglia di riscatto dei giovani”.

D. Come ha scoperto la militanza politica?

R. “Ho sempre avuto una passione per la politica, quella vera, autentica, quella che si fa per amore della gente o dei propri bisogni, che serve realmente al cambiamento delle cose, che riesce a estirpare la malaerba e restituisce dignità agli uomini e le cose. La politica è la cosa più sana che c’è, se gli uomini non l’avranno resa malata. La canzone, se riesce a ritornare ‘la canzone sociale’ come fu per Ivan Della Mea, Ignazio Buttitta e lo stesso Dario Fo col suo ‘Ci ragiono e canto’, può dare una mano alla società e alla politica, magari non risolverà i problemi ma sicuramente creerà interrogativi e può favorire la nascita di una coscienza critica collettiva. Poiché non bisogna smettere di farsi domande e postulare risposte, anche e soprattutto attraverso le canzoni”.

D. Quali affinità elettive si riconosce con De Andrè?

R. “Innanzitutto l’amore per il Mediterraneo e i dialetti. Lui ne ha usati tanti: dal genovese al sardo ed è riuscito a dare dignità poetica a queste ‘parlate’. Ha creato un solco dentro al quale stiamo camminando tutti. Un’altra cosa che mi avvicina a lui è sicuramente il bisogno di dar voce agli ultimi, di descrivere ciò che non fa notizia e di portare al centro le periferie del mondo”.

D. Come si è relazionato con la musica di tradizione dei grandi cantori del Sud, dalla Balistreri a Otello Profazio, di cui si avverte l’eco nella sua musica?

R. “Sono cresciuto sentendo tutta la musica tradizionale del Sud Italia, dalla Taberna Mylaensis ai Lautari, dal Canzoniere Grecanico Salentino a Otello Profazio. Quando ascoltai la prima volta la voce di Rosa Balistreri rimasi turbato. Ricordo che mi creò una dimensione di fastidio: non riuscivo a decodificarla. Mi appagava ma mi inquietava. Erano sensazioni contrastanti. Tutto questo mi portò ad ascoltarla in maniera maniacale e a studiare ogni sua sfumatura, ogni parola, ogni respiro. Da loro ho imparato l’amore e l’odio per questa Sicilia e soprattutto il dar voce ai bisogni dei più deboli”.

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