Lutto nel mondo del pugilato: addio a Muhammad Ali

Il più grande di tutti ha perso il suo ultimo match: il morbo di Parkinson, alla fine, lo ha messo al tappeto. Muhammad Ali ha lottato finchè ha potuto prima di arrendersi. E ad andarsene non è solo una leggenda dello sport: è stato un'icona, un difensore dei diritti civili, il simbolo di un'era. "Come mi piacerebbe essere ricordato? Come un uomo che non ha mai venduto la sua gente. Ma se questo è troppo, allora come un buon pugile", disse una volta. Ma Alì è stato davvero il più forte di sempre. Medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Roma nel 1960 nei mediomassimi, quattro anni dopo l'allora Clay batte a sorpresa Sonny Liston conquistando ad appena 22 anni il suo primo titolo mondiale: è l'inizio della leggenda. Arrogante e strafottente fuori dal ring, l'uomo che veniva da Louisville era un pugile che danzava elegante ("pungi come un'ape, vola come una farfalla" il suo motto) davanti ai suoi avversari, facendo dei suoi riflessi fulminei la sua principale arma. "The Greatest", il più grande, così si era definito, nel frattempo si era avvicinato all'Islam, da qui la decisione di abbandonare il suo "nome da schiavo", Cassius Clay, per chiamarsi Muhammad Ali. Ed è allora che comincia per lui un'altra battaglia, quella contro il governo statunitense per il quale si rifiuta di combattere in Vietnam. "Dov'è il Vietnam? In tv. Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato 'negro'", le parole con cui rifiutò la chiamata alle armi. Una decisione coraggiosa e pagata a caro prezzo. Ali, da sempre sensibile alla tematica della segregazione razziale (proprio a causa di un episodio di razzismo gettò nelle acque del fiume Ohio l'oro vinto a Roma, solo nel '96 il Cio gli riconsegnò una una medaglia sostitutiva), fu privato nel 1967 del suo titolo mondiale e gli fu soprattutto impedito di salire sul ring per 4 anni. Tornerà a combattere solo nel 1971, dopo aver perso forse gli anni migliori della sua carriera, ma questo non gli impedì di accrescere la sua leggenda, combattendo tre incontri rimasti per sempre nella storia. Il primo l'8 marzo 1971 contro Joe Frazier, "L'incontro del secolo" che si risolse con la sua prima sconfitta da professionista, poi il "Rumble in The Jungle" a Kinshasa, il 30 ottobre 1974, con la vittoria in otto round su George Foreman che gli permise di riprendersi la corona dei pesi massimi spinto dal pubblico che urlava "Ali boma ye", "Ali uccidilo". E infine il "Thrilla in Manila", l'1 ottobre 1975, il terzo e ultimo incontro con Frazier con Ali, che si era già preso una prima rivincita nel '74, che ha di nuovo la meglio, complice il ritiro dell'avversario prima della 15esima e ultima ripresa. "The Greatest" difenderà il titolo fino alla sconfitta ai punti con Leon Spinks nel febbraio '78, se lo riprenderà qualche mese dopo prima di appendere i guantoni al chiodo nel 1981 dopo 61 incontri e un bilancio di 56 vittorie, di cui 37 per ko, e appena 5 sconfitte. Ma sceso dal ring, Ali ha dovuto combattere il suo match più difficile, quello contro il morbo di Parkinson diagnosticatogli nel 1984, a soli 42 anni, che lo ha accompagnato fino al suo ultimo giorno. L'ex pugile, però, non si è mai arreso e sono ancora vivide le immagini che lo vedono, tremante, accendere il braciere dei Giochi di Atlanta '96 come ultimo tedoforo. Col passare degli anni le sue condizioni sono via via peggiorate, ha limitato le sue apparizioni pubbliche (fra le ultime quella all'Olimpiade di Londra nel 2012) e giovedì scorso è finito di nuovo in ospedale, a Phoenix, per problemi respiratori che sono risultati fatali. Se n'è andato a 74 anni, dopo una vita fatta di pugni e parole affilate, ora per provocare gli avversari, ora per protestare contro una società americana ancora fortemente razzista. Campione sul ring e anche fuori, paladino dei diritti umani, Alì, ape e farfalla, vola via. E chissà che lassù, con l'amico e avversario Smokin' Joe, non torni a divertirsi.

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